Perché soffriamo?

“Sulla soglia dell’eternità”, Vincent Van Gogh, 1890

L’origine della sofferenza è un tema che ha accompagnato l’essere umano da millenni: tutti se ne sono occupati nel corso del tempo, dai filosofi ai poeti, dagli psichiatri agli artisti. Perché? Riguarda tutti: ognuno di noi ne è toccato, stravolto, angosciato. La sofferenza fa paura: ci pone di fronte ai nostri limiti, mette in scacco le nostre risorse, limita il campo del pensiero e dell’azione, ci irrigidisce se non siamo pronti ad accoglierla. Spesso ci ostiniamo a combatterla, a reprimerla o a ignorarla, ma il potere che essa sembra avere in certe fasi di vita sovrasta quel filo di energie rimasto per ostacolarla. La pensiamo come una punizione cui dover soccombere con impotenza e rassegnazione, come un’ingiustizia fondata sulla mancanza di un qualcosa che dovrebbe appartenerci, oppure come una tappa obbligata per giungere all’espiazione e alla salvezza.

 

E se la sofferenza fosse un passaggio che inserisce nel movimento della vita? Un momento di caos, di transizione da un mo(n)do conosciuto ad un altro, ignoto? Un momento certamente destabilizzante, ma foriero di una generatività che apre a possibilità nuove. Un po’ come trovarsi in mezzo al guado: la sponda lasciata non è più soddisfacente e quella nuova è ancora lontana e difficile da raggiungere. Un passaggio “di stato” lento e laborioso, in cui non c’è razionalità o coscienza che tenga per cercare di attenuarne il sentire interiore, perché la vita è più forte delle intenzioni. Più la sofferenza è grande, più la posta in gioco è alta e il passaggio significativo: una tempesta in atto dai risvolti somato-psichici non indifferenti.

Che fare quindi? Difendersi e resistere al flusso vitale, chiusi rispetto al divenire (non senza conseguenze), oppure procedere in funzione di quanto riusciamo a reggere e a gestire? La sofferenza ha un senso positivo ed evolutivo: sta a noi decidere se e come servirsene.

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