“Maternità”
“Non sento di potermi permettere il lusso di avere un figlio. Non ho tempo. Mia madre si è fatta in quattro per giustificare la vita di sua madre. Ha fatto tutto per lei, per dare senso alla vita della madre. Era rivolta verso sua madre, non verso di me. E anch'io sono rivolta verso mia madre, non verso un figlio o una figlia.
Voltiamo il nostro amore all'indietro per dare un senso alla vita, per fare della vita di nostra madre qualcosa di bello e sensato.
Forse essere madri vuol dire onorare la propria madre.
Tante persone lo fanno diventando madri. Lo fanno mettendo al mondo dei figli. […]
Anch'io sto onorando mia madre, né più né meno. Faccio ciò che ha fatto lei, e per gli stessi motivi: lavoriamo per dare senso alla vita di nostra madre.
Che differenza c'è fra essere una buona madre ed essere una buona figlia? A livello pratico moltissima, a livello simbolico nessuna.”
Imbattersi in “Maternità” significa immergersi nella psiche labirintica di Sheila Heti, nei rimuginii che procedono su piani razionali dell’idea di diventare madre o meno, silenziando la parte emotiva nella maggior parte delle riflessioni.
Il progetto di un figlio si insinua come un tarlo e accompagna la scrittrice per anni (dai 36 ai 40 circa), quelli in cui il tempo per poter scegliere sta per scadere e l’imperativo biologico si sostituisce al desiderio individuale. Tante le esperienze a contatto con donne alle prese con uno o più figli, nella speranza di capire se la maternità è anche il suo destino, vari i tentativi di affidare la scelta ai responsi di cartomanti e delle monete cinesi dell’I Ching, ma sul piatto della bilancia è la scelta di non essere madre che pesa di più.
Ai tormenti interiori e strettamente personali della Heti si intrecciano vicende transgenerazionali: il mandato trasmesso nelle ultime generazioni della sua famiglia vuole che le figlie, anche se in procinto di diventare madri, dedichino la loro vita a risolvere la tristezza, l’insoddisfazione e l’angoscia presenti nella vita delle rispettive madri, rendendole perennemente figlie sul piano esistenziale, votate a tentare di sciogliere i nodi ancora stretti del passato, piuttosto che essere proiettate al futuro.
Si aggiungono a queste dinamiche anche i tagli profondi lasciati in eredità dall’Olocausto: é come se per un figlio non ci fosse spazio, ciò che conta è dare sì la vita, ma a una creatura, un libro, che restituisca senso e valore alla vita della mamma e prima ancora della nonna, qualcosa di “più potente di qualunque omicida, di qualunque crimine”.
E così, come una magia, questo libro riporta ordine nell’Universo, risolve la tristezza delle donne di famiglia mettendola nero su bianco, “rimandando questa palla di dolore dove deve stare, riportandola a chi di dovere”, toccando una sofferenza che risale a molto indietro nel tempo per curarla ad un livello profondo, quello risolutivo.