“Una donna”
“Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa. Al telefono l’infermiere ha detto: “Sua madre si è spenta questa mattina, dopo aver fatto colazione”. Erano circa le dieci.”
Inizia così “Una donna”, il tentativo di Annie Ernaux che si colloca tra la letteratura, la sociologia e la storia: non solo memoria personale in cui l’autrice scava per, a sua volta, “mettere al mondo sua madre”, ma ricerca di sé, della propria identità, che passa anche (inevitabilmente) per le grandi trasformazioni culturali e sociali che hanno segnato la transizione tra il ventesimo e il ventunesimo secolo.
Dentro c’è tutto: nella “lingua più neutra possibile”, si svela il ritratto di una donna dai modi e dai comportamenti bruschi (“tutto quello che faceva, lo faceva con frastuono”), che oscilla dall’abbraccio allo schiaffo nel giro di pochi secondi, una complicità difficile da trovare, che genera in Ernaux sentimenti contrastanti: vergogna, talvolta disgusto, allontanamento, ma anche ammirazione per il coraggio, la tenacia di qualcuno che nasce “contadino” e diventa “commerciante”. Costantemente alla ricerca di un balzo nella piramide sociale, “temeva di non essere amata per se stessa, così sperava di esserlo per ciò che dava”, per poi rendersi conto, con amara consapevolezza, di essere sempre e comunque un “pesce fuor d’acqua”.
E pesce fuor d’acqua è anche la stessa Ernaux, quando realizza con stupore che la madre sarebbe potuta morire in un incidente stradale.
Anche le mamme muoiono. E se muoiono dimenticandosi di chi sei, la sofferenza si moltiplica. Perdono il loro posto nel mondo, nulla più gli appartiene davvero, “gli esseri attorno a lei si fanno via via più indistinti e gli unici sentimenti rimasti sono la rabbia e il sospetto”. Si chiama Alzheimer.
A rompersi non è solo la continuità di chi è colto dalla malattia, ma anche quella di chi, assistendo alla trasformazione, non riconosce più le proprie radici, la propria origine. Una vera e propria crisi esistenziale. Ecco allora la necessità dell’autrice “di unire, attraverso la scrittura, la donna demente che è diventata con quella forte e luminosa che è stata”, come unica strada per ricomporsi, per “unire la donna che sono alla bambina che sono stata”.
Uno scritto spiazzante per la sua autenticità, che arriva dritto al punto. Nessun linguaggio aulico. La sofferenza vuole parole semplici per essere compresa. È questo lo stile cui Ernaux ci ha abituati, cui non rinuncia neppure (e soprattutto) stavolta.